Daniela Raimondi

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Mese: agosto, 2014

Il paradiso terrestre di Dante letto dai Poeti: Melodia Meridiana, Ed. Il Ponte del Sale 2014

Melodia Meridiana (3)

Mi fanno compagnia in questo volume i poeti: Nicola Licciardello, Stefano Strazzabosco, Jamie McKendrick, Luca Rizzatello, José Maria Micò.

Di seguito il testo del mio saggio:

PURGATORIO, CANTO XXXI

Il XXXI Canto del Purgatorio dantesco è quasi interamente dedicato alla figura di Beatrice. Qui continuano le accuse rivolte a Dante iniziate nel canto precedente. Beatrice lo esorta a confessare le sue colpe e chiede spiegazioni per il traviamento morale che il poeta ha attraversato dopo la sua morte (vv. 1-36). Il rimprovero di Beatrice è severo. Spiega a Dante che il suo correr dietro a piaceri caduchi e terreni fu un errore, perché nulla gli avrebbe offerto il piacere che gli derivava dalla sua bellezza quand’ella era in vita. Peccando, lui non ha ottenuto altro che allontanarsi dalla retta via. Dante è profondamente afflitto dai rimproveri della donna amata. Colmo di vergogna e di rimorso, non riesce a fissarla negli occhi e, nel momento in cui Beatrice lo incita ad alzare lo sguardo verso di lei, sviene (vv. 37-90). Quando si riprende, il poeta si trova immerso nel fiume Lete per opera di Metelda, la quale lo conduce sull’altra riva. Lì Dante viene circondato dalle quattro virtù cardinali, ma sono le tre virtù teologali che hanno il compito di condurlo dinnanzi a Beatrice. Gli occhi del poeta fissano estasiati quelli dell’amata, che però ha il viso coperto da un velo e lo sguardo rivolto al grifone. Solo in seguito alla preghiera delle tre virtù teologali, Beatrice acconsente a scoprire il volto affinché Dante la possa scorgere in tutta la sua bellezza.
Questi, brevemente, i fatti descritti nel Canto XXXI del Purgatorio.

Il tema di maggior interesse critico del Canto è da ricercarsi nel significato che riveste il personaggio di Beatrice. Per molti studiosi l’aspetto che più conta è quello allegorico. La maggioranza dei critici asserisce che, nel corso dell’opera dantesca, l’immagine di Beatrice cambia, come cambia la sua funzione all’interno di essa. In lei si incarnano dapprima l’amore umano, espresso come Amor Cortese nella Vita Nova; successivamente, nella Commedia, Beatrice si spoglia di ogni caratteristica terrena fino a elevare l’amore verso un sentimento trascendentale che si fonde nell’amore di Dio.
Molti critici vedono in Beatrice l’allegoria della ricerca dell’umanità intera di Dio; altri l’allegoria stessa di Cristo. In questa luce, Dante sarebbe il simbolo dell’uomo, Virgilio della ragione, Beatrice della fede che conduce l’umanità dalla selva oscura del peccato verso la rettitudine morale e la vicinanza a Dio. Sappiamo che Beatrice, figura letteraria, nasce da un’esperienza reale nella vita di Dante. La maggior parte degli studiosi concorda nel riconoscere in lei Bice Portinari, giovane nobildonna fiorentina andata in sposa a Simone de Bardi e morta a soli ventiquattro anni. Ciò che è fondamentale per molti studiosi è che, sebbene traendo spunto dalla realtà, Dante scrive di lei in funzione di un complesso edificio simbolico in cui Beatrice rappresenta una delle colonne portanti. Tanto più esteso e profondo il significato simbolico, quanto impersonale e interpretabile il testo. Riferendosi alla Divina Commedia, T.S. Eliot scrive: “l’allegoria è l’impalcatura sulla quale è costruito il poema.” (2009, 7). Ma si tratta, appunto, di un’impalcatura. Relegare la Divina Commedia ad un’opera scritta con un intento dottrinale, significa privarla di una ricchezza psicologica che invece resta profondamente umana.

Come punto di partenza nell’analisi del Canto XXXI del Purgatorio, è bene ricordare che Dante è un uomo che opera, pensa e scrive nel contesto storico del Medioevo. Quando lo si legge, è necessario calarsi nel Cristianesimo del XIII secolo, in un mondo dove i dogmi religiosi e l’influenza della Chiesa erano onnipresenti e predominavano su tutti gli aspetti della vita. Amore terreno e amore divino vengono interpretati come inconciliabili nella teologia del Medioevo. Innamorarsi è dar vita a una religione il cui dio è fallibile. Che Dante abbia professato per Beatrice un’adorazione idolatrica è una verità innegabile. Non credo però che la trasformazione letteraria del personaggio di lei nella Divina Commedia risponda primariamente a questioni teologiche e filosofiche. Le riflette, naturalmente, ma solo in parte. Direi piuttosto che, morta Beatrice, separato per sempre da lei, Dante usò il sogno e la finzione per mitigare gli effetti devastanti della sua perdita.

Per esporre e sviluppare questa teoria, è utile fare prima un passo indietro, rileggere il Canto V dell’Inferno dantesco. Mettiamo brevemente a confronto la storia dell’impossibile amore di Dante per Beatrice con il tragico amore di Paolo e Francesca. I due innamorati hanno peccato sia contro le leggi terrene che contro Dio. Per loro l’epilogo è di morte ed eterna condanna. Ma Dante non è categorico, è riluttante nel giudicarli. Come uomo del XIII secolo e come cristiano, Dante non può non considerarli colpevoli, ma non riesce nemmeno a condannarli perché si riconosce nella loro fragilità umana. Intravedo una fascinazione, quasi un senso di invidia di Dante nei confronti di questo amore peccaminoso, ma eterno. Mentre Beatrice era irraggiungibile in vita, e irrimediabilmente perduta dopo la morte, l’amore di Paolo e Francesca è un rapporto che nemmeno la fine terrena ha potuto sconfiggere. “Questi che mai da me non fia diviso.” – dice lei. (Par. Canto V, v. 135). Francesca non parla mai in prima persona, ma sempre con il pronome plurale ‘noi’. È una sola unità con l’amato, anche dopo la morte. Come non pensare che Dante, oltre al senso di profonda pietà, non abbia provato anche una punta di invidia per questi innamorati? Scrivendo a proposito dell’episodio, Jorge Luis Borges esclama: “[Paolo e Francesca] condividono l’inferno, ma questo a Dante dev’essere sembrato una specie di paradiso. (2011, p. 128) Paolo e Francesca sono condannati per sempre, ma insieme. Beatrice invece è irrimediabilmente perduta. Irraggiungibile prima nella vita, separata per sempre dalla morte.

Come elabora Dante questa perdita? Nella Vita Nova descrive una Beatrice che, seppur idealizzata e paragonata a una creatura angelica, è pur sempre rappresentata come una creatura viva. Dopo la morte di lei, Dante si rifiuta di cedere al lutto. Decide di non scrivere più dell’amata prima di essere in grado di parlarne più degnamente, ovvero di dirne “ciò che mai non fue detto d’alcuna”. Tace, dunque, il dolore della perdita. Riapre la ferita solo anni dopo, facendo rivivere Beatrice nella Divina Commedia. Qui l’elegia per la donna morta da almeno dieci anni si sviluppa in sorprendente pienezza e in ricchi risvolti psicologici. È un dettaglio importante che la presenza di Beatrice avvenga principalmente nel contesto del Paradiso Terrestre, un luogo che ancora echeggia di vita terrena. Acqua, erba, monte, cielo. Tutto è famigliare, tutto sembra reale. La stessa Beatrice è ancora imbevuta di umanità, ancora legata a sentimenti terreni. Sotto il simbolismo della fede, vibra una figura umana a cui il poeta regala spazio, a cui regala una voce. Qui scatta la contraddizione. Mentre Beatrice, da viva, è descritta principalmente come figura angelica e portatrice di miracoli, nel Purgatorio dantesco si ripresenta come un’anima che agisce, parla, litiga, decide. Viene spontaneo asserire che da morta Beatrice è molto più realistica e terrena di come ci viene descritta quando era in vita.

Mi pare esista una discordanza di fondo fra i critici che vedono una trasformazione di Beatrice che la eleva a dimensione totalmente spirituale (e quindi necessariamente slegata da sentimenti come il rimpianto, il dolore, il senso della perdita) e la solitudine, il senso di abbandono, che si intravedono nei canti del Purgatorio. Non a caso sarà un Santo (Bernando), e non Beatrice, ad accompagnare Dante nell’ultimo tratto del viaggio. Lei è ancora troppo calata in una dimensione terrena per poter accompagnarlo alla presenza di Dio. Solo negli ultimi canti del Paradiso l’immagine di Beatrice si fonderà totalmente con quella di Dio, espandendosi in un amore assoluto che perde ogni traccia delle passioni umane. Solo negli ultimi canti del Paradiso volere umano e quello divino coincidono nell’appagamento del desiderio, risolvendosi in quell’“amor che move il sole e l’altre stelle.”
Mi pare comunque rilevante notare come sia attraverso gli occhi di Beatrice, quindi attraverso l’esperienza dell’amore umano, che Dante giungerà a scorgere, quindi a comprendere, la visione di Dio:

“riguardando ne’ belli occhi… un punto vidi che raggiava lume acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca chiuder conviensi perlo forte acume”. (Par. C. XXVIII, vv.11 e 16-18).

Eppure persino l’ultimo, finale e sfuggevole sorriso che Beatrice rivolgerà a Dante nel Paradiso, non può non essere carico di tutte le connotazioni di un profondo dramma umano. “Ov’è ella?” – grida il poeta. E infine: “Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò all’etterna fontana.” (Paradiso, Canto XXXI, vv 91-93).
Gli allegoristi affermano: Beatrice era uno strumento per accompagnare Dante verso la divinità. Ottenuta la purificazione del poeta e raggiunto il suo scopo di accompagnatrice, ella scompare. Ma in quel grido, “Ov’è ella”, Dante lascia intuire che fino alle soglie della conoscenza ultima, persino nell’imminente traguardo della comunione con Dio, resta l’incolmabile vuoto della separazione. Resta l’orrore della perdita, la fragilità della natura umana.

Ma torniamo al Canto XXXI del Purgatorio. Osserviamo come ci viene descritta Beatrice. Ci troviamo davanti a uno spettro, ma questo spettro ha un aspetto definito. È vestita di rosso, ha occhi di smeraldo, un velo candido le copre il viso, il suo mantello è verde. Come osserva Osip Mandel’štam: “Dante ha congiunto indissolubilmente il cromatismo con la pienezza fonica del discorso articolato. Ma egli rimane un tintore, un tessitore.” (p.138). Nei canti del Purgatorio Beatrice ci viene presentata come uno spirito, ma uno spirito dai tratti umani che parla, agisce, litiga, mostra sentimenti come la gelosia, il risentimento, l’autorità; a volte nelle sue parole si nota persino un certo sarcasmo. Il suo comportamento sembra più simile a quello di una donna tradita che a quello di un’apparizione angelica. Qui il poeta compie uno straordinario atto di riesumazione. Beatrice non è spirituale, eterea, miracolosa, come nella Vita Nova. Dante è percorso dal desiderio: “Sotto ‘l so velo e oltre la rivera / vincer pariemi più sé stessa antica, / vincer che l’altre qui, quant’ella c’era. (XXXI, vv. 82-84). È qui, nel cuore del Paradiso Terrestre, che Beatrice prende forma. È qui che Dante ce la mostra con maggior rilievo. Appare chiaro che quello che causa a Dante tanto tumulto interiore, non sono le qualità spirituali della giovane donna, ma la sua bellezza. È l’amore che nutriva per lei che si risveglia, che ancora lo fa tremare. Beatrice viene percepita con i sensi, in particolare con la vista (otto citazioni dirette o indirette agli occhi solo nel Canto XXXI). Quelle di Dante sono visioni, immaginazioni ‘visive’, quindi dei sensi umani; non teologiche, non ispirate principalmente dal pensiero. È attraverso gli occhi, il senso che prima di ogni altro fomenta il desiderio nell’uomo, che Dante percepisce Beatrice, e la interiorizza, e la riporta in vita. Quando amiamo qualcuno che ci è lontano, non sono le sue parole che cerchiamo. Primeggia innanzitutto il bisogno sensoriale di vedere l’oggetto amato e di toccarlo. Ma siamo nel Medioevo. Esprimere l’eventualità di ogni tipo di contatto fisico con Beatrice sarebbe stata pura eresia. Rimaneva invece moralmente accettabile l’avvicinamento di Dante a Beatrice attraverso la vista. Rimaneva l’immenso piacere degli occhi, che nel Canto XXXI viene ripetutamente enfatizzato. Consumare attraverso la vista, interiorizzare attraverso gli occhi il corpo e il viso dell’amata. È attraverso i sensi che Dante riesce a farci percepire un’esperienza che, pur avendo lo scopo di essere una visione rarefatta e mistica, si risolve in una descrizione fondamentalmente realistica e terrena. La visione di Beatrice procura a Dante: “Mille disiri più che fiamma caldi”. Viene suggerita una forte comunione di sguardi in quel: “strinsemi li occhi a li occhi rilucenti” (vv. 118, 119). È solo vedendo di nuovo Beatrice che Dante può annullare la separazione causata dalla sua morte. Non attraverso la preghiera, non con la fede o il ricordo, ma attraverso i sensi. Leggiamo: “l’occhio comprese”. Solo attraverso la vista dell’amata può Dante comprendere, quindi accettare, la sua morte. Come solo attraverso gli occhi dell’amata riuscirà più tardi a comprendere e a far sua la visione di Dio. Il pensiero dell’Aldilà, la consolazione della fede, non bastano. Nemmeno le parole da sole sono sufficienti. Dante questo lo dice chiaramente. La fatica di parlare, a cui accenna più volte nel Canto XXXI, non è da associare solo alla fatica psicologica di una aperta confessione delle proprie colpe, ma anche e soprattutto, alla difficoltà di riconnettersi alla persona perduta attraverso un contatto solo verbale: “la voce allentò” (v. 21), “a pena ebbi la voce che rispuose / e le labbra a fatica la formaro” (vv. 32, 33). Solo con la vista dell’amata può il senso di perdita essere alleviato. Ed ecco che vediamo Beatrice, i suoi occhi color dello smeraldo, la sua veste rossa. La percepiamo in tutte le sfumature umane che erano state sminuite nelle descrizioni della Vita Nova.
Ascoltiamo, insieme a Dante, la sua voce terrena, il suo tono risentito di amante tradita:

“Mai non t’appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch’io
rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte” (P. XXXI, vv 49-51)

Si possono intuire cenni di impazienza nei rimproveri di Beatrice, persino un’ombra di scherno quando incita Dante a confessare le sue colpe, o ad alzare il mento e a guardarla negli occhi. C’è un tono tutto umano, di gelosia, di offesa, quando lei gli ricorda le sue mancanze. Lo schernisce quando lo paragona a un ingenuo uccellino appena uscito dal nido e pronto a cadere nella rete di chiunque. È categorica quando ripete: “ben ti dovevi… non ti dovea…” (vv. 55 e 58). Pare gelosia la sua quando accenna a quella “pargoletta” che ha conquistato i favori del poeta dopo la sua morte.
È difficile concordare con quei critici che vedono, in questo linguaggio proprio dell’amore, in questo quasi-litigio fra innamorati, la copertura dietro cui si cela una dottrina etica, e in Beatrice la personificazione di una virtù astratta. Nella Commedia c’è una sospensione dell’incredulità. Ci abbandoniamo alla finzione perché questa è talmente intrisa di verità terrene, di sentimenti reali in cui riusciamo a riconoscerci dopo quasi mille anni, che alla fine ci convinciamo che Dante stesso credesse in questo altro mondo, che questo mondo ultraterreno sia tanto reale quanto quello su cui ci muoviamo noi. I morti di Dante hanno sicuramente un valore allegorico, come i personaggi di qualsiasi opera medioevale, ma sono in dialogo con il poeta, e con noi. Al di là del loro carattere simbolico, i morti di Dante sono vivi. Le anime, lontane dall’aver lasciato le passioni terrene, soffrono e sentono tanto quanto coloro che vivono: (“E ’l modo ancor m’offende”, dice Francesca nell’Inferno). La Beatrice del Purgatorio acquisisce corposità, tratti umani e una dimensione psicologica che la fanno andare oltre il limite dell’allegoria e arricchiscono il suo significato simbolico. “Mai in poesia un’esperienza tanto remota da quella quotidiana è stata espressa in modo così concreto” – commenta T. S. Eliot (2009, p. 49).

Nel Purgatorio dantesco, ci inoltriamo in un territorio poetico molto più complesso di quello di un’opera allegorica. Siamo testimoni della riesumazione di quella donna amata e perduta, che prende di nuovo vita attraverso la poesia. Da un punto di vista moderno e psicologico, tutto questo ha un suo senso preciso. Dante passa dall’amore idealizzato, che ha descritto nella Vita Nova, al trauma interamente terreno della morte dell’amata. Dopo tale perdita, si concretizza in lui il bisogno di reinventare Beatrice, di farla rivivere, parlare, agire in un contesto che dovrebbe essere soprannaturale, ma che si risolve in una dimensione profondamente umana. Dante ha bisogno di far rivivere Beatrice, deve farlo per superare il dramma del suo rifiuto prima, e della separazione dovuta alla sua morte poi. L’unico mezzo che ha a disposizione è la scrittura. Ecco che, dopo un periodo di silenzio, il poeta riapre la ferita. Scrive la Commedia, e in essa fa rivivere Beatrice, la incontra nuovamente nel sogno, ne resuscita la presenza. Nei canti del Purgatorio ci troviamo davanti all’elaborazione di un lutto. Dante, attraverso la scrittura cerca di dare un senso alla morte della donna che amava.

Il pensiero filosofico della Divina Commedia rimane necessariamente legato al dogma cristiano del secolo in cui visse e operò Dante. Un pensiero che agognava al distacco dell’uomo da tutte le cose terrene. Nonostante questo, il simbolismo di Beatrice come allegoria dell’umanità, o ancor più specificatamente allegoria di Cristo, non toglie alla sua figura un’importante dimensione psicologica e umana. Beatrice resta, sopra ogni interpretazione simbolica, l’amore perduto di Dante. Un amore non consumato, un amore irraggiungibile, ma pur sempre un amore terreno. È intorno a Beatrice che ruotano tutti gli altri personaggi; forse è lei la ragione stessa della creazione dell’opera. Scrive ancora Borges: “Penso che Dante abbia edificato il miglior libro della letteratura per introdurvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice” (2011, p. 101).
Nella Divina Commedia la figura di Beatrice, al di là del suo valore allegorico e della sua funzione di guida teologica, rappresenta l’elaborazione di un lutto, il tentativo di chiudere una ferita inguaribile. Per ottenere questo Dante fa ricorso agli strumenti che conosceva e che aveva a disposizione: la filosofia della Chiesa cattolica del suo tempo, e la propria sensibilità di poeta.

Daniela Raimondi

Riferimenti bibliografici:

Jorge Luis Borges: Nove Saggi Danteschi, Adelphi 2011
T. S. Eliot: Scritti su Dante, Bompiani, 2009)
Osip Mandel’štam: Conversazione su Dante, Il Melangolo, 2003

Prossima pubblicazione: Maria di Nazareth, Puntacapo Ed. 2015

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xvi.    La pazzia

 

No!
No!
No!

Io mi ribello.
Io disobbedisco a dio.
Perché tu il solo dio
tu il solo ordine,
la mia terraprimavera!

Scavo in ginocchio,
con le unghie scavo
fino a trovare i tuoi occhi.
E ti rubo alla morte.
Io ti trascino via,
ti porto verso la casa dei risorti.

Vieni, mio bene,
vieni fra le mie braccia.
I morti tornano
a volte
dal loro sonno celeste
e noi nudi,
tornati piccoli,
noi
senza macchia o peccato.
Noi di nuovo uniti, e felici.

Ti tocco.
Mio corpo. Mio fiato. Mio sangue.
Spargo il tuo corpo con olio di mandorla
e profumo di nardo.
Ti nomino
e ti battezzo.
Ti dono il latte dei miei seni vecchi.
Ti nutro col pane e con l’acqua,
col cibo santo che viene dal campo e dal fiume.
E riverso nella tua bocca tutto il senso del tempo,
il mistero, la mia saliva ed il pianto.

Avvolgo la tua carne nel sudario di lino
e qui, al tuo fianco
mi siedo composta
e attendo.

Parlami.
Apri i tuoi occhi e parlami.

Dimmi, ti prego, dimmi
che tornerai e mi terrai per mano.
Vivimi nella parola.
Dammi fiato. Dammi nomi e suoni
in una lingua che non conosce morte.
Parlami con una furia felice di vena,
nel canto di un rinnovato parto.
Alzati e parlami
con la voce dei vivi.

Da: Maria Di Nazareth,
Puntacapo Edizioni, in uscita primavera 2015