Dal mio nuovo libro di poesie

2 MANIKARNIcA COP fronte_1 (1)di prossima uscita presso Edizioni Puntoacapo.

Ecco la prefazione del libro a cura di Emanuele Andrea Spano, che ringrazio.

L’epicentro di questa raccolta di Daniela Raimondi, inteso proprio come il luogo da cui si propaga la ragnatela di elementi e di suggestioni che caratterizzano queste pagine, è da ricercare nella sezione eponima del libro. Se si accantona per un momento il denso sottotitolo che, come si capirà oltre, non ha un mero valore didascalico, e si entra nel merito di quei roghi, di quelle celebrazioni rituali che accompagnano l’ultimo viaggio del defunto, si comprende che è proprio da lì, dal conflitto tra vita e morte, dal compenetrarsi e annientarsi al tempo stesso di questi due elementi che si muove tutto.

Se andiamo a Manikárnica e assistiamo a questo rituale antico abbiamo l’impressione di trovarci all’origine di tutto, al punto di partenza della civiltà umana, ritroviamo in quel “fuoco”, che libera e rigenera, l’essenza stessa del mondo, eppure a commuoverci non sono tanto quei gesti lenti, così distanti dal nostro Occidente moderno, quanto le madri e le figlie trincerate dentro casa in un lutto muto e il figlio che traghetta il padre verso l’oltre, che batte il bastone sul suo petto a scavare una falla, a ricercare il cuore, consegnando quella vita cui deve la sua stessa vita a un nuovo confine.

Il passaggio del testimone dal genitore al figlio, il mandato di generare altra vita è ancora centrale nella sezione contigua Sanskrit, che certo pesca dal medesimo serbatoio culturale e spirituale. Lo troviamo nella affascinante cosmogonia che vede protagonista Prajapati nell’atto di creare il figlio da un suo occhio, trasmettendogli il dono della luce, quel figlio che, appena partorito, vuole divorare il padre, innescando così un vortice di violenza senza fine. C’è qui l’idea dell’uccidere il padre con tutte le valenze simboliche che risiedono in questo gesto e accanto, come era chiaro nel racconto di Makarnica, la necessità di seppellirlo, di superarlo, di sopravvivergli assecondando un ordine naturale delle cose.

È indubbio che questo nucleo rappresenta il motore sotterraneo del libro ed anche il punto di approdo di quel viaggio, evocato sin dal titolo, che si spinge fino alle profondità dell’India per riscoprire la radice più autentica dell’esistenza umana e interpretarne il mistero. Un viaggio che si snoda lungo un asse privato e per certi versi sentimentale, che attinge all’esperienza stessa di chi scrive per spalancarsi poi in una riflessione che trascende il semplice itinerario fisico.

Ne è una riprova l’intensa sezione dal titolo Terra promessa che abbraccia in una prospettiva diacronica la storia del “nuovo mondo”, raccontandolo per immagini e frammenti, da quel fatidico ottobre del 1492 in cui, come ancora tragicamente si continua a 7 ripetere, fu “scoperta”, ad arrivare fino alla ferita insanabile dell’11 settembre, fino a quell’inferno di fuoco che squarciò il suo cuore pulsante, la sua anima – e lo sguardo della Raimondi si appunta come una lente sui tanti, che per sfuggire all’orrore delle fiamme si lanciarono nel vuoto, destinati a schiantarsi al suolo come degli Icaro contemporanei.

Proprio New York diviene centro simbolico di questa sezione, vista attraverso gli occhi degli emigranti che attendono il loro destino a Ellis Island, una New York vagheggiata come la porta di una nuova vita, oltre che di un nuovo mondo, come una sorta di nuova “nascita”. Non a caso la Raimondi scrive in apertura di questa serie di liriche «Partiremo soli, come quando si nasce» a segnalare il distacco traumatico dal cordone ombelicale del proprio mondo, sepolto sotto miglia di mare e ancora, ripensando alla lunga attesa di Ellis Island: «È per te che partivo, mia bellissima America, /per nascere di nuovo dal tuo ventre di ferro». Un ventre che quasi ci partorisce come una madre che sostituisce e annienta quella madre che si è lasciata a casa dopo un addio fugace, un ventre quasi contraddetto poco oltre dagli occhi di un inedito Garcia Lorca che vive quella New York così tentacolare e oscura come una «vagina dentata» – nascosta sotto una sottana che si alza solo di notte.

Come non trovare una corrispondenza esatta tra la condizione degli italiani emigrati e i migranti che solcano ogni notte le acque del Mediterraneo alla ricerca di un porto sicuro, di una salvezza da quella madre che da culla si è fatta letto di morte. Lo racconta la Raimondi con una lucidità tagliente che esclude ogni facile retorica, senza risparmiarci però la commozione per quel mondo sommerso che ci ostiniamo a non guardare, per quegli ultimi che accettano la prospettiva di una morte probabile pur di scampare a una morte certa e atroce. In quell’espressione «polmoni pieni di mare», tanto lapidaria quanto densa di significato, c’è tutto il senso di quella disperazione: quel mare che annega e uccide è lo stesso che si guardava come a una nuova nascita, a un liquido amniotico che potesse consegnarci a una luce nuova e più pura e un po’ di quella vita forse resta impigliata nei polmoni, nella pelle, nello sguardo di chi è morto così, senza una ragione, per il solo desiderio di sopravvivere. Quel “mare nostrum”, che è pure il titolo di questa sezione, forse, scrive la Raimondi, non appartiene a nessuno, è solo lo sterminato cimitero dei tanti, che tentarono per fame, per paura le sue onde, le loro ragioni sono tutte racchiuse nella parola della migrante che arriva dal «ventre nero di un camion» e non ha quasi una destinazione certa, ma sa che ogni cosa sarebbe stata meglio del «corpo di mia madre in fiamme» – e si noti come ancora una volta l’elemento ventre-madre, moltiplicato nelle sue possibili varianti, raccolga per intero il conflitto tra vita e morte.

Dalle coste dell’Africa settentrionale, divenute negli anni il punto di partenza di quei viaggi della morte, la Raimondi discende fino alle profondità del continente ricucendo peraltro la propria vicenda personale a quella collettiva attraverso la corrispondenza con la figlia lontana. Grazie agli occhi della figlia, alla sua testimonianza, si ricostruisce un microcosmo dimenticato, dominato dal dramma dell’orfanità, dalla privazione della madre, una madre che si spinge oltre quella genetica e si estende a tutto quel mondo che ci ha generato e infine abbandonato. E allora la corrispondenza tra madre e figlia, il loro legame, il nostro essere tutti prodotti di una civiltà del benessere stride con quella realtà periferica, decimata dalla fame e dalla AIDS, che solo grazie alla poesia può trovare ora voce.

Se di viaggio si parla, e, come si sarà compreso, di un viaggio in senso lato, non si può che concludere con quella sezione che pare esplorare il limite, il confine ultimo e che la Raimondi dedica al Circolo Polare artico. Non solo perché il viaggio come metafora della conoscenza si spinge in tal modo ben oltre le colonne d’Ercole e si inoltra nel terreno dell’indicibile, ma perché quella sezione, così sospesa tra memoria privata e rievocazione storica, costruita tra il diario e la prosa, è quella che raccoglie in una sola nitidissima voce tutti i fantasmi, tanto che quella del padre quasi si ricongiunge idealmente a quelle sommerse dei guerrieri vichinghi naufragati in altri tempi. Basterà l’immagine della barca che «apre il sesso del mare» a tracciare il confine, quella barca, scrive la Raimondi, che «lo squarcia in due identici mondi: / il cielo dall’acqua, il giorno dal buio», spalancando e colmando con un solo gesto lo iato tra la vita e la morte, tra l’esserci e il non esserci.

Emanuele Andrea Spano